RICORDO DI RENZO FRIOLOTTO


 

di Marco Brunazzi

A vederlo passare così alto, magro, la lunga barbetta grigia stretta ma non appuntita, il passo un po’ strascicato, Renzo Friolotto poteva forse far pensare al “cavaliere dalla triste figura”. Quel Don Chisciotte di cui lui aveva certo ereditato la passione per ideali altissimi da inseguire senza posa, tenace e determinato, per tutta la vita, indifferente agli scetticismi di chi non saprà mai avere un sogno. Ma, appunto come il grande hidalgo, non solo sul piano intellettuale, ma nella concretezza di scelte che scandiscono una intera esistenza e che si affrontano sempre, per difficili e ardue che siano.

Aveva novantadue anni Renzo, ma come i veri intellettuali l’età non aveva affatto affievolito lucidità e inesausta capacità critica. Studioso attento e sensibile, non cessava di interrogarsi senza posa sulla storia e sui rapporti sociali e sul senso dell’esperienza umana alla luce di una idea di lavoro ben più alta di quella oggi corrente. Non certamente per lui il lavoro era l’odierna povera merce e pure deprezzata, ma anzi la forma storica e antropologica dell’inverarsi della dignità della persona. Per lui infatti l’intera vita era lavoro, e il tempo “libero” doveva essere il tempo del lavoro libero, o meglio liberato, ma prima ancora dalle servitù interiori che da quelle esteriori. Quello delle umane incombenze che fanno di un uomo un uomo, comprese e a partire proprio dalle più umili, quelle delle donne che lavano e stirano e cucinano e hanno cura degli altri. Poiché infatti il lavoro non è spazio di vita asservita da un potere altrui, ma spazio di vita riconquistato alla pienezza stessa della vita. Il limite creaturale che si rovescia quindi, nel lungo percorso evolutivo tracciato a inizio Novecento dal suo amato Teilhard de Chardin, in divina cooperazione creatrice.

La sua originaria scelta di farsi prete e poi prete operaio, in una parrocchia torinese dove l’egemonia culturale del “padrone” era palpabile e riconoscibile nei visi attoniti di chi seguiva le sue omelie nette e coraggiose, lo portò infine alla dolorosa decisione di abbandonare quel ruolo. Una funzione e una veste per lui ancora troppo strette da logiche gerarchiche e opportunismi morali comunque insopportabili. Nacque così il lungo sodalizio con l’impegno sindacale, che non per caso si orientò sul più piccolo dei sindacati confederali, la UIL. Quella UIL che a lui pareva forse più sensibile alla difficile convivenza tra urgenza di giustizia sociale e difesa a oltranza della libertà, personale non meno che collettiva e che la peculiare cifra della laicità rendeva più rassicurante per chi, come lui, veniva da esperienze inevitabilmente segnate da influenze clericali, piuttosto che genuinamente ecclesiali.

Ma Renzo aveva anche passione, pur non accademica, di storico. Fu lui a porre mano alla costruzione dell’archivio storico del sindacato, emblematicamente lavorando accanto ad una illustre profuga cilena, quella Carmen Ansaldi che aveva fatto parte del governo di Salvador Allende. 
Continuava a studiare, a scrivere, a discutere, pur nel rigore di un quotidiano lavoro di umile e paziente ricerca di quelle carte ormai ingiallite che recavano l’orma lieve di anni di fatiche e di speranze e di lotte e di sofferte passioni civili. Amava parlare dei grandi temi della contemporaneità e si sforzava di interpretarli alla luce di un disegno più alto, che sapesse comprenderli e in qualche modo trascenderli. 

Parlava con quella voce un po’ roca di dignitosa senilità, in quel suo modo chiaro e senza edulcoranti eufemismi, teso non a compiacere l’interlocutore, ma a capirlo e a farsi capire.

Ora che se ne è andato, resta il rimpianto di averlo visto sofferente, ma mai domo, in quel suo letto d’ospedale che sembrava quasi troppo corto per lui. 
Ora che te ne sei andato, caro Renzo, dolce e severo Don Chisciotte, lasciaci la speranza, a noi opachi e presuntuosi Sancio Panza, di trovare sempre la volontà e la forza di seguirti. Che anche noi, come tu hai sempre fatto, si provi a continuare la tua ostinata battaglia contro quei terribili mulini a vento. Che tu però sapevi riconoscere, dissimulati dalle convenienze e dalle imposture, per quello che erano. I feroci giganti che in ogni tempo cercano implacabilmente di spegnere la scintilla divina nell’umano e di stritolarne poi l’inerme memoria.

 
 
 

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