20 maggio 1970 - 20 maggio 2020

A cinquant'anni dallo statuto dei lavoratori

Numerosi sono stati gli interventi di storici, giornalisti, politici, sindacalisti e operatori culturali e sociali in occasione del cinquantesimo anniversario della Legge n. 300 del 20 maggio 1970, definita da subito come Statuto dei lavoratori. Un progetto che risaliva molto lontano, al primo dopoguerra, affrontato per la prima volta in Parlamento da Filippo Turati nel 1920 nel suo famoso discorso “Rifare l’Italia!”, d’intesa con Bruno Buozzi, segretario generale della Fiom, la vera anima riformista del sindacato, auspicando un’alleanza con il Partito Popolare per dare uno sbocco concreto alla gravissima crisi sociale di allora.
Se ne riparlò nel secondo dopoguerra, ma il tema divenne d’attualità solo con il governo organico di centrosinistra, nel 1963, quando i socialisti imposero l’attuazione dei principi costituzionali in materia di diritto del lavoro. Intanto nel Paese riprendevano le battaglie per le rivendicazione sociali e i tentativi di autonomia e di unità sindacale, fino all’esplodere delle lotte operaie a fine del decennio. Nel 1968 il ministro del Lavoro Giacomo Brodolini presentò il primo disegno di legge, supportato dall’opera di una giovane generazione di giuslavoristi come Gino Giugni e Federico Mancini. Il 20 maggio del 1970 veniva infine approvata la legge, portata a termine dal ministro Carlo Donat Cattin, succeduto a Brodolini prematuramente scomparso.
Come noto, tale legge fu il frutto di una intensa stagione di lotte politiche e sociali e del forte impegno, tra gli altri, del Partito socialista nei governi di centro-sinistra succeduti a quelli di Aldo Moro. Nonostante il deludente risultato delle elezioni politiche del 1968 e la rinnovata scissione della componente socialdemocratica, il ministro del Lavoro, il socialista Giacomo Brodolini, impostò con appassionato impegno il progetto, ma morì dopo pochi mesi. Il vero artefice fu Gino Giugni, anch’egli socialista, braccio destro di Brodolini, che fu mantenuto al suo posto dal nuovo ministro, il democristiano di sinistra Donat-Cattin.

                            
Giacomo Brodolini, 1920-1969, il ministro che per primo dette impulso al progetto
Gino Giugni, 1927-2009, il giuslavorista che ebbe un ruolo chiave nella stesura dello Statuto dei lavoratori (Archivio Fondazione Nenni, Roma)

“Fu Giugni – ha ricordato recentemente colui che all’epoca era il Segretario della UILM, Giorgio Benvenuto – a trovare le soluzioni pratiche che fecero accelerare l’approvazione dello Statuto. E in più fece anticipare le norme previste nella trattativa del contratto dei metalmeccanici. Diritto di assemblea, deleghe, diritto dei sindacalisti: tutte quelle clausole contrattuali finirono poi nella legge”. Alla varietà dei numerosi commenti e considerazioni per la ricorrenza attuale, che non è il caso qui di riproporre, si vogliono ora aggiungere solo alcune riflessioni “a margine”.
La prima è quella relativa al nesso storico e fattuale tra una determinata realtà concretamente verificatasi nella sfera sociale e la sua successiva formalizzazione in sede normativa. Del resto, è una nota argomentazione quella per la quale il diritto non sia altro che la stabilizzazione in forma di norma generale e astratta di una realtà manifestatasi nella concreta varietà dei suoi accadimenti. Questa stabilizzazione, naturalmente, sarà tale nel tempo sino a che nuovi eventi e vicende storico-sociali non si mostreranno come non più compatibili, anche solo in termini di senso comune, con quella precedente formalizzazione. Ed è appunto questa una delle considerazioni più ricorrenti, sia pure con diverse gradualità e intensità, nella maggior parte dei commenti sui cinquant’anni che sono trascorsi dalla introduzione legislativa dello Statuto dei lavoratori. Ma queste considerazioni, al limite dell’ovvietà, raramente colgono le ragioni cronologiche di quegli avvenimenti.

Detto altrimenti, perché quella legge proprio allora? E perché invece pare oggi non così semplice modificarla o addirittura sostituirla con un’altra conforme all’attualità dei tempi?

Il fatto è che cinquant’anni fa si erano determinati bisogni e domande non altrimenti posponibili alla luce del conflitto sociale che ne aveva posto l’esigenza. In altri termini, era stata l’intensità del conflitto a fissare di fatto l’agenda di quell’intervento legislativo. Un decennio di vistosi cambiamenti politici, economici e sociali si era alla fine materializzato nelle forme, almeno in parte inedite, di un radicale conflitto.
Dove la radicalità non stava soltanto nei contenuti rivendicativi, ma nella mutata identità dei soggetti sociali e della loro autorappresentazione. Sinteticamente si potrebbe dire che fu l’ "autunno caldo" del 1969 e, come ricordato da Benvenuto, il nuovo contratto collettivo dei metalmeccanici a porre l’urgenza della sua formalizzazione come norma di legge generale. La risposta data dalle principali forze politiche sul piano legislativo coniugava infatti quelle spinte sociali con la progettualità politica propria delle forze progressiste e le saldava con il mutato clima culturale, o etico- civile, nonostante la crescente “strategia della tensione” stragista di quegli anni.
Non per caso, appena due anni dopo, le elezioni politiche per la prima volta anticipate, segnavano l’avvio di un governo di centro-destra e il passaggio all’opposizione, dove già erano i comunisti, dei socialisti. Del resto, l’astensione al momento del voto del Partito Comunista non fu tanto dovuta alle insufficienze vere o presunte del testo di legge, ma piuttosto al timore di vedere il partito scavalcato a sinistra dall’offensiva dei movimenti. D’altronde, ricorda ancora Benvenuto, “… il PCI era contrario al fatto che i diritti previsti dallo Statuto si esprimevano in diritti in capo al sindacato e non ai lavoratori…” .
Posizione quest’ultima, quanto meno paradossale per un partito che aveva sempre fatto del suo strettissimo legame con il maggiore sindacato italiano (la CGIL) l’asse della sua azione politica sul terreno delle lotte, appunto, sindacali. E’ significativo che oggi, dopo mezzo secolo, anche da parte di alcuni che avevano allora militato in schieramenti critici o poco motivati dal passaggio parlamentare della legge (la galassia di movimenti collocati nell’area dell’antagonismo radicale, ma anche di un partito come lo PSIUP, nato pochi anni prima dalla scissione della sinistra socialista) si riconosca l’errore di prospettiva, se non di strategia politica. Si rivelò infatti assai presto un’illusione quella per cui il solo vero motore del cambiamento sociale si iscrivesse nella radicalità del conflitto e che tutto il resto, riforme legislative anche fortemente innovative, fossero secondarie se non addirittura pericolose per il mantenimento della forza propulsiva di quei movimenti prevalentemente extra-sindacali ed extra-parlamentari.
In realtà quella legge segnò innanzitutto il fatto, come si disse allora, che i diritti di eguaglianza e dignità dei lavoratori, solennemente iscritti nei principi fondamentali della Costituzione, potessero finalmente entrare, anche fisicamente (con le assemblee), nelle fabbriche e poi per estensione in tutti i luoghi lavoro.
Certo, furono le organizzazioni sindacali ad essere i destinatari principali e le protagoniste dell’attuazione concreta di quelle norme. Ma, mutato il quadro politico e venuta progressivamente meno, per varie e anche opposte ragioni, la radicalità permanente del conflitto, fu appunto grazie a quella legge e alla assidua gestione sindacale che ne furono fatti salvi i capisaldi e la prassi attuativa. Oggi, dopo un trentennio di rapidi e formidabili mutamenti economici e sociali e soprattutto di clamorose innovazioni tecnologiche, informatiche e di organizzazione del lavoro, quello Statuto dei lavoratori sembra largamente anacronistico: non tanto sul piano dei principi e delle tutele, ma della identità dei soggetti sociali, i lavoratori, che appaiono oggi così profondamente cambiati in questo odierno contesto, quello di una società ormai largamente post-industriale e segnata da una gigantesca trasformazione delle forme costitutive della comunicazione. Il fatto che tutti, dai datori lavoro alle organizzazioni sindacali, riconoscano che il quadro è troppo mutato per non richiedere adeguati cambiamenti, urta contro la difficoltà oggettiva di immaginare e costruire e soprattutto di sperimentare nuovi modelli efficaci di rappresentanza e di tutela.
D’altra parte, in ogni epoca il mondo delle relazioni di lavoro ha richiesto rapidità e pragmatismo di analisi e di decisioni. I programmi dei partiti e dei movimenti politici possono restare indefinitamente sospesi nel cielo delle intenzioni, più o meno buone, salvo avere come simbolica verifica il periodico consenso elettorale. Ma l’impegno dei sindacati, o di chicchessia si ponga come alternativa più valida, richiede di misurarsi sulla quotidianità dei problemi che assillano direttamente l’esistenza di ogni lavoratore, quale che sia il suo inquadramento giuridico e il suo ruolo effettivo nel reticolo delle odierne relazioni economiche e sociali.
Finché non sarà compiuto questo arduo percorso, al tempo stesso culturale, sociale ed etico-civile, in altre parole, pienamente politico, sarà difficile allestire uno strumento normativo comparabile con quello dello Statuto dei Lavoratori.

Marco Brunazzi

LA TESTIMONIANZA


Giorgio Benvenuto alla manifestazione unitaria per il contratto dei metalmeccanici,
Torino, Piazza San Carlo, 1969 (Archivio Uil Piemonte, Istituto Salvemini, Torino)

Giorgio Benvenuto, allora segretario Uilm: «Sono uno dei pochi superstiti di un anno straordinario in cui, da minoritari, anticipammo lo Statuto»
Intervista di Massimo Franchi «Sono un superstite, uno dei pochi rimasti, ma sono contento di raccontare una pagina nobile della storia del nostro paese».

A 82 anni Giorgio Benvenuto in questi giorni passa da un intervento Skype alle interviste televisive con la lucidità di un ragazzo che parla con passione di una battaglia vinta.

Benvenuto, lei divenne segretario generale della Uilm nel 1969 dopo una lunga gavetta sindacale. Furono dodici mesi indimenticabili.

Sono entrato nel sindacato nel 1955 e mi laureai in giurisprudenza alla Sapienza di Roma nel 1960 con una tesi sulle Commissioni interne nelle fabbriche. Se l’intuizione di una legge organica per i lavoratori si può far risalire addirittura a Turati con “Rifare l’Italia” del 1919 e poi alla Fiom di Buozzi, martire del fascismo, prima di Di Vittorio che lo disegnò organicamente negli anni ’50, in realtà la sua approvazione è arrivata tardi rispetto agli altri paesi europei. Lo spazio politico si era aperto nel 1963 con la sollevazione contro il governo Tambroni e l’avvio del centrosinistra con Moro. Il boom economico fu fatto sulla pelle dei lavoratori e le fabbriche in quegli anni erano turbinose. Ricordo che noi ci entravamo solo scortati dai lavoratori con i capi del personale che ci diffidavano dall’entrare e poi ci denunciavano perché al tempo le fabbriche erano «proprietà privata». Con lo Statuto arrivò l’amnistia per 14mila denunce, io ne avrò avute decine e decine. Ma tutto fu figlio della nostra lotta dell’autunno caldo.

Lei da socialista a chi dà la palma del vero autore dello Statuto: Gino Giugni o Giacomo Brodolini?

Tra i due, capisco spiazzandola, la direi Donat Cattin. Perché è vero che Brodolini presentò la proposta di legge nel 1969, ma poi purtroppo morì e fu sostituito come ministro del Lavoro dal democristiano Donat Cattin che ebbe l’intelligenza di confermare Gino Giugni come braccio destro al ministero, dando continuità al progetto. Fu Giugni a trovare le soluzioni pratiche che fecero accelerare l’approvazione dello Statuto. E in più fece anticipare le norme previste nella trattativa nel contratto dei metalmeccanici. Diritto di assemblea, deleghe, diritti dei sindacalisti: tutte quelle clausole contrattuali finirono poi nella legge. Una legge non calata dall’alto ma nata dal nostro impegno unitario.

Il Pci però si astenne:considerava lo Statuto insufficiente. Ci furono pressioni in quelle settimane?

Nessuna pressione sul sindacato. Il Pci sosteneva che si sarebbe potuto fare di più ed era contrario al fatto che i diritti previsti dallo Statuto si esprimevano in diritti in capo al sindacato e non ai lavoratori. Fu lo stesso Donat Cattin a difendere anche l’articolo 28: il comportamento antisindacale con decisione immediata del giudice.

A livello sindacale però le cose non furono così semplici: voi metalmeccanici eravate in una situazione complicata con le confederazioni.

Sì, la Cisl storicamente e ancora oggi è sempre stata contraria a legiferare su questioni contrattuali. In più nel 1969 sia noi come Uilm che la Fim Cisl uscimmo sconfitti – seppur di pochi voti – nei congressi confederali di Uil e Cisl sulla questione dell’unità dei metalmeccanici che poi sfociò nella Flm. Fu molto dura portare avanti la trattativa del contratto dei metalmeccanici da soli ma riuscimmo ad imporre che le confederazioni ne rimanessero fuori. Ricordo che alla grande manifestazione di Roma decidemmo di non far parlare i segretari generali: con Storti (segretario Cisl, ndr) e Vanni (segretario Uil, ndr) non fu difficile, ma Bruno Trentin disse: «E chi glielo va a dire a Novella? (l’allora segretario generale della Cgil, ndr)». Pierre Carniti gli rispose: «Gielo vai a dire tu». Bruno era interdetto, ma Pierre lo convinse: «Ce la fai, ce la fai». L’altro momento terribile fu il 19 novembre con la manifestazione per la casa e l’uccisione del poliziotto Annarumma. Saragat in qualche modo addossò la colpa a noi sindacati e per tornare in piazza il ministro democristiano Restivo ci chiese di prendere la responsabilità dell’ordine pubblico: lo facemmo e andò tutto bene, nessun incidente. La conquista dello Statuto fu possibile solo perché in quell’anno ci fu uno spirito straordinario di partecipazione. La nostra unità, anche umana, era fortissima. Quella legge la scrissero i lavoratori con la loro lotta.

                                                                                                                  Giorgio Benvenuto alla manifestazione unitaria per il contratto dei metalmeccanici,
                                                                                                                   Torino, Piazza San Carlo, 1969 (Archivio Uil Piemonte, Istituto Salvemini, Torino)

Benvenuto, lo Statuto compie oggi cinquanta anni. Mantenerne lo spirito è sacrosanto, il mondo del lavoro però è cambiato totalmente. Lei come lo aggiornerebbe?

Certo, lo Statuto è tarato sull’industrializzazione e il lavoro in fabbrica. Oggi invece il lavoro è frammentato e precario. L’Italia fino agli anni novanta si è salvata svalutando la Lira; da lì in poi, non potendo svalutare l’Euro, si è svalutato il lavoro. Dare nuovi diritti nell’epoca della globalizzazione e della finanziarizzazione è ancora più difficile. Lo sviluppo tecnologico, l’intelligenza artificiale hanno creato disparità e diseguaglianze spaventose nel campo della conoscenza. Questo però paradossalmente ci riavvicina alla nostra battaglia: noi chiedemmo le 150 ore per gli operai perché ritenevamo centrale che gli operai capissero come andava il mondo; oggi bisogna reimpadronirsi della conoscenza. La pandemia è un dramma e allo stesso tempo un’occasione formidabile per ribaltare il mondo e limitare il potere della finanza, rimettendo al centro la persona. Serve una grande attività progettuale da parte del sindacato. Non è facile ma nemmeno impossibile: un rilancio del suo ruolo arricchirebbe la democrazia.

“Il manifesto”, 20 maggio 2020

 

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